
Grammatica e femminismo in home page
Antefatto
C’è stato un periodo, nemmeno tanto breve, in cui non sbandieravo volentieri la mia laurea in ingegneria. Ero convinta che per lavorare con le parole fosse indispensabile un background umanistico. Così cercavo di colmare le mie mancanze studiando, iscrivendomi a decine di corsi e abbassando lo sguardo quando al giro di nomi d’inizio lezione mi dovevo presentare. Poi qualcuna mi ha fatto notare quanto il metodo, l’organizzazione, l’attitudine alla progettazione fossero caratteristiche utili, da mettere in bella mostra. Alla fine ho fatto pace con il mio percorso e, grazie a una provvidenziale spintarella di Mafe, sono diventata Ingegnere delle parole.
Fase 1: la negazione (o meglio, l’ignoranza)
Questa è la parte più difficile da ammettere, ma la storia non sarebbe onesta se la omettessi. Ingegnere finisce con la -e. Io ero convinta che funzionasse come preside, e che fosse solo l’articolo a far capire quando si tratta di un maschio o una femmina. Per questo ho pensato di essere un po’ rivoluzionaria e un po’ simpatica, quando in home page del mio sito ho deciso di inserire un apostrofo: Marilisa, un’ingegnere delle parole.

È difficile da ammettere perché, proprio io, che lavoro con le parole, avrei dovuto sapere che quello è un grossolano errore di grammatica, piazzato lì nella prima riga del mio sito . Per fortuna esiste Vera Gheno, che con pazienza spiega al mondo l’italiano anche sui social: il femminile di ingegnere esiste ed è ingegnera. Ecco l’ennesima certezza della mia vita post laurea che si sgretola.
Per questa fase oscura ho trovato due recenti redenzioni.
1 – La stessa genialata del credersi originali e freak l’ha fatta anche l’Università di Padova che in occasione di un evento per parlare di ingegneria e genere crea questa grafica.
(Ho navigato il sito in cerca di una pagina che dicesse: Scherzetto! Volevamo solo vedere se eri attenta. Invece no, c’è grande cautela nello scrivere sempre donna laureata in ingegneria, ma ingegnera mai, neanche per sbaglio.).
2- Questo paragrafo di Femminili Singolari sembra scritto per farmi una carezza sulla testa. Vera mi perdona, possiamo passare alla fase due.

Fase 2: la rabbia
Ho passato anni negli studi di progettazione e negli uffici tecnici ad arrabbiarmi perché il mio capo, non laureato, veniva titolato ingegnere e io invece signorina. Anni a mandare giù rospi perché in cantiere, quando sei donna e ti presenti agli operai come ingegnere, ti chiedono di non esagerare e di fare almeno un sorriso. Anni a reclamare il titolo per cui mi ero fatta un gran mazzo, ed era pure il titolo sbagliato.
Fase 3: la contrattazione
Ora il problema del cantiere non c’è più, resta però quello del mio payoff e della home page del sito. Cosa ci scrivo? Ok, ho capito, l’apostrofo è sbagliato, ma davvero devo scrivere ingegnera? No dai! Io devo pensare al mio target. Chi leggerà il mio sito non si occupa né di linguistica né di battaglie di genere. Il mio obiettivo è parlare con le piccole aziende e il messaggio che deve arrivare riguarda i miei servizi, non l’evoluzione della mia coscienza femminista. Aggiriamo il problema, togliamo l’articolo e scriviamo: Sono Marilisa, ingegnere delle parole.

L’errore di grammatica non c’è più, il mio target non si porrà mai la questione, ho risolto, funziona.
Invece no. Mi sarei accontentata di questa soluzione all’inizio, forse. Ma ora questa ricerca mi ha dato una consapevolezza che prima non avevo, ho imparato non solo l’uso dei femminili professionali, ma anche il loro valore. Questa versione ormai è un’etichetta che prude.
Fase 4: la presa di coscienza
In questo percorso, durato qualche mese, ho studiato. Non solo grammatica, perché lì c’era poco da studiare: qualche regola, come sempre le eccezioni e nel dubbio il dizionario.
L’argomento più interessante è stato indagare perché i femminili professionali siano così difficili da dire ad alta voce, perché le stesse donne spesso li rifiutino e perché, invece, è importante iniziare ad usarli.
(Non c’è qualcosa di paradossale nel vedere che un’associazione di donne – riunite per valorizzare il proprio ruolo nella professione – non usa ad alta voce quel ruolo in tutte le sue sfaccettature?)

Durante il lockdown ho conosciuto Tlon, una scuola di filosofia che libera i ragionamenti dalle aule universitarie e li porta su internet, con cura e voglia di costruire. Da loro ho imparato che il femminismo è una filosofia e che la filosofia può entrare nelle vite di tutti come pratica quotidiana.
Così uno dei miei piccoli atti concreti di femminismo ora è lì, nel mio payoff, in home page: Sono Marilisa, ingegnera delle parole.

(Ovviamente l’epifania è arrivata dopo che avevo già mandato in stampa 200 biglietti da visita. Ora sono chiusi nel cassetto, in attesa di sapere quale sarà il loro destino.)
Vuoi diventare femminista, in concreto, anche tu?
Io ho iniziato così:
* Palinsesto Femminista, di Irene Facheris: una serie di dirette Instagram, salvate poi come podcast gratuito, dove Irene parla con donne, uomini e persone non binarie di femminismo e di come ci si possa avvicinare a questo tema.
* Tlon, la scuola di filosofia di Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Per cominciare a conoscerli ti consiglio Instagram. Ma puoi continuare con i video corsi e i libri della loro casa editrice.
* Tutto quello che dice e scrive la sociolinguista Vera Gheno. Già dai suoi contenuti su Facebook si impara tantissimo, soprattutto se hai la pazienza di leggere i commenti che riceve e come risponde.
Fase 5: accettazione (e nuove questioni)
Declinare il proprio titolo al femminile non è obbligatorio. Superata la fase dell’ignoranza e valutate le possibilità, ciascuna è libera di decidere come farsi chiamare, senza troppe discussioni sulla cacofonia o preoccupazioni sul dove andremo a finire signoramia.
Resta però una questione aperta.
Ho delle amiche che usano titoli al maschile anche quando il titolo femminile è di uso comune. Ho chiesto a una di loro perché avesse preferito scrivere biologo anziché biologa sulla targa fuori dallo studio. La sua risposta: “Ho sudato tanto per arrivare a questa posizione, ho sempre voluto fare il biologo, se ora mi metti nella categoria delle biologhe mi pare di giocare un campionato minore. Voglio dare risalto alla professione, non al fatto di essere donna.”
Qui il problema non è la grammatica o la temuta deriva dell’italiano. Questa è paura. Aspiriamo al ruolo maschile perché temiamo (a ragione) di non essere prese sul serio; perché percepiamo la declinazione al femminile come una presa in giro, una forzatura, non importa che sia corretta. Ci convinciamo che la parità di genere passi da cose ben più importanti, cosa sarà mai una desinenza.
A queste mie amiche chiedo: davvero abbiamo bisogno di prendere in prestito un’etichetta maschile per affermarci? E se invece provassimo a riappropriarci di un linguaggio che ci racconta e ci rende visibili?
Ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza. (Vera Gheno – Femminili Singolari)
Conclusione
Se dopo tutte queste elucubrazioni sulla home page del mio sito ti è venuta la curiosità di darci un’occhiata, allora devi sapere chi sono le due professioniste che hanno lavorato perché io potessi avere un sito su cui piangere la mia crisi d’identità.
Marianna Milione, designer grafica, ha creato la brand identity che non sapevo di volere. Ora compro anche i vestiti in palette.
Laura Lonighi, web designer freelance fondatrice di Yunikondesign, che ha realizzato, oltre alla fighissima home page interattiva, tutto il sito su misura perfetto per me.